
Ascoltare è andare a casa dell’altro.
Lui ti dice qualcosa, e tu vai dove sta lui, dove lui è in quel momento, dove sta abitando.
Vai a casa sua.
Entri. Stai lì, dentro la sua casa.
Arredata a modo suo.
Piena delle sue cose.
Dei suoi modi.
Stai lì e percepisci.
A volte confondiamo due cose simili, che in realtà sono diverse:
“ho udito ciò che mi hai detto”; “ho ascoltato ciò che mi hai detto”.
“Udito” ed “ascoltato” sono due cose diverse.
Udire è recepire il tuo racconto di casa tua.
Ascoltare è ricevere quel racconto come un invito e poi VENIRCI a casa tua, attraverso l’immedesimazione empatica.
Udire e ascoltare sono differenti nel modo di porsi e nelle conseguenze che portano.
Quando ti ho udito e basta ho capito ciò che mi dici, ma non ho davvero capito COME TI SENTI.
Quando ti sto udendo interpreto il TUO stare dove stai, con il MIO sentire, cioè con il mio stare dove sto io.
Perché mi sono accontentato del racconto del luogo di cui mi stai parlando, ma non sono venuto in quel luogo a viverlo con tutto me stesso, con ciò che sono, con ciò che provo, azione che permetterebbe al luogo della tua esperienza di modificare il mio sentire, facendo sì che finalmente il luogo in cui stai tu diventi per un momento anche il luogo in cui sto io.
Quando ti ASCOLTO vengo dentro il luogo che le tue parole mi indicano e, lì, finalmente comprendo.
Comprendo davvero.
Cioè ho una percezione personale, dettagliata, ampia, di quel luogo.
Sto vivendo l’esperienza di quel luogo.
Che poi è sempre un immergersi di nuovo, nell’esperienza di un luogo già esplorato.
Perché ovviamente l’unico modo che noi abbiamo di ascoltare è quello di andare a cercare dentro di noi il luogo più simile possibile a quello che tu mi racconti, per poi andarci di nuovo dentro, con nuovi occhi. Gli occhi di quel momento presente, e della tua prospettiva.
La verità dunque è che io non ho modo fino in fondo di visitare davvero casa tua, però posso tornare a visitare quelle stanze di casa mia, che tu, con il tuo racconto, mi stai indicando come molto simili a quelle stanze di casa tua che stai abitando in quel momento.
Ma tutte queste spiegazioni non devono distrarci dal punto centrale, ma anzi aiutarci a coglierlo meglio:
quando l’altro ci parla, noi stiamo lì fermi a sentire le sue parole e basta?
Oppure ci diamo da fare?
Perché ascoltare non è un processo passivo, di accoglimento e ricezione.
Ascoltare è un processo attivo: di SPOSTAMENTO.
Noi dobbiamo recepire le “indicazioni stradali” dell’altro, capirle in modo corretto e poi andare nel luogo che lui ci sta indicando.
Purtroppo la differenza tra “udire le tue parole” ed “ascoltare le tue parole” è così sottile, impalpabile e sfuggente, da far sì che di solito non la cogliamo.
Per cui l’altra persona ci dice continuamente dove sta il problema.
E se noi l’ascoltassimo non solo riusciremmo a risolvere il suo problema ma, risolvendo il suo, apriremmo un’autostrada di disponibilità per risolvere il nostro.
Perché, se sapessimo ascoltarci, la relazione sarebbe una cosa immensamente più semplice.
Tu daresti a me le “istruzioni per l’uso di te”, il modo in cui tu staresti tranquillo, soddisfatto e senza paure; ed io darei le “istruzioni per l’uso di me” a te, di me, per farmi stare bene e sereno.
Spesso crediamo che la capacità di ascolto sia qualcosa che dipenda dal carattere di una persona, dal suo tipo di personalità: questa persona è sensibile e altruista, e dunque ascolta, quest’altra persona è disattenta, narcisista, egoista, e quindi non ascolta.
Non è così.
Tutti abbiamo la capacità di ascoltare e tutti la perdiamo in alcune situazioni.
Così come tutti abbiamo la possibilità di udire, eppure non potremmo farlo se avessimo dei tappi di cera dentro le orecchie.
Saper ascoltare vuol dire aprire il proprio cuore alla sofferenza dell’altro.
Ma se il mio cuore è pieno della mia sofferenza è come se avesse “i tappi di cera”.
Io udirò le tue parole, ma le tue parole non entreranno nel mio cuore, perché la mia preoccupazione per LA MIA sofferenza mi impedirà di preoccuparmi della tua sofferenza.
La verità è che sappiamo udirci, ma non sappiamo ascoltarci, perché entriamo in una posizione simmetrica che rende i nostri cuori rispettivamente sordi al dolore dell’altro.
C’è un gioco di animazione, che può descrivere bene ciò che accade.
Due giocatori al centro della stanza, in piedi, hanno ognuno una mano dietro la schiena e, con l’altra mano, tengono un cucchiaio, con poggiato un uovo dentro.
I due giocatori vincono se riescono a scambiarsi le uova dentro i cucchiai, senza fare una frittata.
Questo gioco, metaforicamente, può mostrare il problema dell’ascolto all’interno della relazione affettiva.
L’uovo rappresenta i propri bisogni di relazione.
Il cucchiaio rappresenta l’ascolto del cuore.
Se tu ti prenderai cura del mio uovo, io potrò essere felice, altrimenti la mia felicità morirà.
Se io mi prenderò cura del tuo uovo, tu potrai essere felice di stare con me, altrimenti starai così male da desiderare di andare via.
Io ho bisogno che tu prenda, nel tuo cucchiaio (il tuo ascolto) il mio uovo (i miei bisogni).
Ho la necessità che tu sappia ascoltare e prenderti cura dei miei bisogni.
Tu hai bisogno che io prenda nel mio cucchiaio il tuo uovo.
Cioè che io sappia ascoltare te.
Come fare?
Se il mio cucchiaio (la mia attenzione d’ascolto, la mia preoccupazione) è piena del mio uovo, io non potrò prendere il tuo.
E viceversa.
È in questa posizione di stallo che, in ogni relazione, ad un certo punto, finiamo intrappolati:
abbiamo bisogni differenti.
E la vita a volte si mette di traverso, così che un tuo bisogno sembra ostacolare la strada alla soddisfazione del mio bisogno.
Perché io avrei la necessità che tu ascoltassi il mio bisogno, al fine di trovare una soluzione, ma tu non mi ascolti più, preso come sei a cercare di farmi ascoltare il tuo.
Come uscire da questo blocco?
I due giocatori con le uova in mano si rendono presto conto che sono in una situazione quasi impossibile: ognuno dei cucchiai è pieno e non può ricevere nulla.
E se tirassero in contemporanea in aria le due uova, per poi afferrare al volo col proprio cucchiaio l’uovo dell’altro, è quasi certo che si farà una frittata.
Poi di solito uno dei due giocatori intuisce la semplicissima soluzione: va a poggiare il suo uovo su una superficie al sicuro, e poi porge il suo cucchiaio vuoto all’altro.
Cioè mette per un attimo in “stand by” i suoi bisogni per liberare il suo ascolto all’accoglienza dei bisogni dell’altro.
L’altro allora mette il suo uovo ( i suoi bisogni) nel cucchiaio del primo (quella possibilità di ascolto che gli viene offerta) e poi, quando il suo cucchiaio è vuoto, va a prendere, con l’aiuto del primo, l’uovo che ancora doveva essere accolto dal cucchiaio.
Ma dentro le nostre relazioni non facciamo mai così.
Dentro le nostre relazioni, ad un certo punto del percorso, nessuno dei due è più disposto a mettere in “stand by” i propri bisogni, per prendersi cura di quelli dell’altro.
Ci diciamo che lo facciamo già e che non funziona. Ci diciamo che già mille volte ci siamo occupati dei bisogni dell’altro ma poi l’altro se ne è fregato dei bisogni nostri.
Ma non ci accorgiamo che non è vero che ce ne siamo occupati.
Perché noi quei bisogni li abbiamo “uditi” ma non li abbiamo “ascoltati.”
E soprattutto non abbiamo davvero trovato una soluzione.
L’altro ci ha parlato delle sue spine, e noi siamo convinti di essercene occupati, anche se in realtà l’altro ci sta dicendo che le sue spine sono ancora lì.
Ma siamo ciechi. Ognuno dei due è cieco.
Ognuno dei due è cieco per il dolore di sentire i propri bisogni inascoltati. Ognuno dei due è col proprio uovo sofferente, che non viene preso dal cucchiaio dell’altro.
Siamo entrati insieme in una paralisi completa, dovuta alla nostra fatale simmetria:
A: «ti prego di ascoltarmi: io sto male per questa cosa».
B: «no, ascoltami tu, perché io sto male per quest’altra.»
Non succede mai, invece, un:
A: «ti prego di ascoltarmi, io sto male per questa cosa.»
B: «capisco, mi dispiace. Si, anch’io sto male per delle cose, ma possiamo occuparcene dopo, adesso vorrei trovare prima il modo insieme a te per far sì che tu non stia più male per questa cosa, così che, dopo, magari, a te andrà di aiutarmi a non stare più male io.»
Ma prendercene cura davvero. Mettere in fiduciosa attesa i nostri bisogni, andare a casa dell’altro, comprendere davvero cosa prova, capire davvero le sue spine, toglierle, vedergli tornare sul viso il sorriso. Sentirgli dire «grazie, non ce la facevo più con queste spine nella carne».
e solo allora, gentilmente, chiedergli: «ti andrebbe ora di prenderti cura delle mie spine?»
Cosa penserete che risponderà?
La verità alla fine è la più semplice del mondo: stiamo entrambi cercando di andare incontro all’altro, ma non ci stiamo riuscendo.
Perché è ovvio che in una relazione d’amore cerchiamo di andare incontro all’altro!
All’inizio c’è amore, attrazione, desiderio, c’è una grandissima voglia di far felice l’altro.
All’inizio entrambi siamo pieni di disponibilità a cercare di farci stare bene reciprocamente.
Solo che poi non ci riusciamo.
E tutto si perde, anche la disponibilità.
Ma non ci riusciamo perché le cose si ingarbugliano enormemente, perché le nostre diversità non rendono facile dare risposta sempre ai bisogni dell’altro, e perché alla fine il dolore che si accumula ci fa del tutto perdere la nostra capacità di ascolto.
Recuperando la capacità di ascoltarci la soluzione sarebbe immediatamente a portata di mano.
Invece ormai tu mi parli sempre delle tue spine, ma io non le comprendo; e tu non capisci quali sono le spine che feriscono me, e non fai nulla per toglierle.
Ma se io ricomincio ad ascoltare, comprendo finalmente le tue spine e le tolgo improvvisamente il sollievo enorme che proverai si trasformerà in gratitudine, e la gratitudine in un ritorno di amore e di voglia di farmi felice.
E così finalmente ascolterai le mie spine e me le toglierai.
E noi torneremo finalmente ad avere fiducia in noi due.
Torneremo a far respirare i nostri sentimenti d’amore reciproci, che il dolore aveva ormai soffocato.
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Grazie se, chi ha letto fin qui, me lo fa sapere…
Grazie, se vi va di dirmi qualcosa.
Chiedo cortesemente di non copiare e incollare.
Grazie quando avete voglia di condividere.
Bruno
Foto: le “ova” de casa mia… 🙂