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Autosabotarsi

Alle volte ci sentiamo “indietro” per qualche cosa e cerchiamo di “metterci in pari”.
Percepiamo dei “deficit” del nostro corpo, o della nostra mente, o del nostro spirito, che riteniamo stiano limitando il nostro accesso a una felicità.
Cerchiamo allora di rimediare.
Ci iscriviamo a corsi, a sport, a università, perseguiamo discipline, andiamo da terapeuti di ogni tipo e seguiamo cammini di crescita delle più disparate forme, nella speranza di poter “guarire” dal nostro deficit o comunque aumentare i nostri potenziali.
E questo può essere un bene, e certe volte ne possiamo apprezzare il giovamento acquisito e siamo felici delle nuove risorse che sentiamo di aver sviluppato.
Insomma ci affidiamo a percorsi evolutivi per diventare migliori.
Alcune volte questi percorsi evolutivi portano segni di successo.
Altre volte invece ci danno segni di arresto, di “ritorno indietro”, di fallimento, di stagnazione.
Alcune volte, addirittura, entriamo nel dubbio di autosabotaggi, perché ci accorgiamo che a volte il nostro inconscio invece di sostenerci ha partecipato alla creazione di impedimenti e incidenti a “nostra insaputa”.
Possibile che a volte i fallimenti non dipendano dalla forza degli ostacoli esterni, bensì da qualcosa dentro di noi?
Come se avessimo in noi qualcosa che “rema contro”?
Lo stesso identico problema lo percepiamo quando ci troviamo di fronte alle lamentele delle persone che amiamo.
In molte occasioni ascoltiamo il loro dolore, e vorremmo aiutarli, proponiamo dunque delle possibili vie di miglioramento, ma la risposta che riceviamo è un “no” su tutto.
Qualsiasi ipotesi di soluzione viene rimandata indietro come inadatta o non perseguibile, per una ragione o un’altra.
Tanto che a noi ci viene da pensare: «la verità è che tu non vuoi uscire da questo dolore, te lo vuoi tenere».
Come se l’essere umano potesse essere “masochista”, cioè provare piacere dal dolore. Oppure che voglia star male per colpire, con il suo dolore, chi gli vuole bene.
A volte interpretiamo questo caparbio sforzo di mantenimento delle condizioni che ci fanno del male, come “mancanza di amore per sé”.
«Quando sono io ad autosabotarmi o tu ad autosabotarti, è perché non ci stiamo amando abbastanza, oppure perché siamo perversamente affezionati al nostro dolore o alla nostra rabbia».
E poi magari andiamo a cercare nei traumi infantili, cioè nella colpa di qualcuno che ha fatto parte della nostra storia, la ragione della nostra scarsa autostima, del nostro poco amore verso noi stessi, del nostro infognarci ripetutamente in situazioni che ci fanno male.
Insomma se ci autosabotiamo ci dev’essere un carnefice a cui dare la colpa, che sia esterno o dentro di noi.
E se invece non ci fosse alcuna colpa?
Se invece l’autosabotaggio non fosse altro che il conflitto tra alcune forze dentro di noi che credono in una crescita e la sostengono, e altre forze che temono quella crescita e dunque la ostacolano?
Stare male, avere dei limiti, avere dei deficit, avere dei problemi permanenti, produce un complesso equilibrio di sopravvivenza.
Guarire, veder scomparire il limite, significa rompere quell’equilibrio, significa percepirsi proiettati verso un ignoto che non si ha la più pallida idea di come poter gestire.
Se fossi un ergastolano che è dentro da trent’anni, e improvvisamente mi arrivasse la grazia, sarei terrorizzato.
Il mio inconscio potrebbe addirittura spingermi a picchiare selvaggiamente il mio compagno di cella per una sciocchezza, pur di farmi revocare la grazia, senza dover ammettere a me stesso che avevo paura di uscire di prigione.
Se fossi un paraplegico senza l’uso di gambe e braccia ed avessi ormai trovato un mio equilibrio; se vivessi di un sussidio; se il mio handicap mi consentisse alcune cose a cui mi sono abituato; se mia moglie mi avesse scelto proprio per la fragilità che emanavo e per un suo senso di dedizione alla mia condizione… Come vivrei l’arrivo di una cura che mi permettesse di “ridiventare normale”?
A volte la mia sofferenza, il mio deficit, il mio limite, la mia malattia, la mia incapacità, mi mettono in una condizione speciale. Dolorosa ma speciale.
Il mio deficit mi salva da due pressioni esistenziali a cui tutti “i normali” sono chiamati:

– ogni essere umano per vivere deve ricevere nutrimenti (materiali e immateriali)
– ogni essere umano per vivere deve offrire nutrimenti (per contribuire al tessuto affettivo di cui fa parte).

Essere “speciale” per via del proprio “deficit” ci mette in una particolare condizione:
“ho il diritto di ricevere, perchè sono più bisognoso”;
“sono esentato da alcuni obblighi del restituire, perché sono più bisognoso”.
Dietro a questi pensieri si nascondono le due paure più grandi insite nel vivere:
ho paura di “morire di fame, di insostenibile assenza” (assenza di nutrimento, aiuto, calore);
ho paura di “morire mangiato, di insostenibile presenza” (di pretese, di obblighi, di ingerenze)”.
Il vittimismo è un “affezionarsi ai propri deficit”, fino ad arrivare a difenderli e a sabotare le nostre guarigioni e le nostre crescite.
Ma non lo facciamo per colpa, o per poco amore verso noi stessi, o per masochismo.
La facciamo per impotenza e per paura.
Sentiamo che il nostro deficit attiva negli altri “riflessi di accudimento”, e abbiamo paura di non poter sopravvivere senza questi nutrimenti che ci vengono donati.
Abbiamo paura che dimostrare una nostra autosufficienza, ci priverà dell’aiuto che ricevevamo, un aiuto senza il quale temiamo di non saper sopravvivere.
Sentiamo inoltre che senza il nostro deficit potremmo venir soverchiati dai compiti a cui il legame ci chiama, compiti che abbiamo paura di non essere in grado di sostenere.
Vicinanze che il legame prevede, dentro le quali temiamo di “morire soffocati”.
Obblighi interiori che la relazione affettiva presuppone che ci torturerebbero di sensi di inadeguatezza e di colpa, poiché li percepiamo giusti ma superiori alle nostre forze.
Modelli identitari a cui chi ci vuole bene ci chiede di aderire, che noi viviamo come violenze al nostro sentire, ma a cui però non sappiamo sottrarci.
Insomma da una parte abbiamo paura di non sapercela cavare da soli, dall’altra abbiamo paura di non saper difendere i nostri bisogni e la nostra identità dalla pressione degli altri.
Sentiamo il bisogno di una “protesi” per fare queste due cose.
E il “deficit” diventa la nostra protesi.
Ci autosabotiamo perché una parte di noi vorrebbe crescere, ma l’altra parte di noi è terrorizzata dall’essere “pienamente adulta”.
E così rimaniamo in un limbo lacerante, soffrendo per la nostra “condizione di piccoli”, ma non avendo la forza e il coraggio di raggiungere una “posizione di grandi”.
Una “posizione di grandi” che prevede oneri, costi di mantenimento, responsabilità e rischi.
Una “posizone di grandi” che ci fa sentire enormemente esposti.
Cosa fare, allora?
Capire che qualsiasi nuovo equilibrio, non importa se migliorativo, è comunque terrorizzante ed effettivamente difficilissimo da creare e poi da sostenere.
Capire che se abbiamo paura, abbiamo paura, non serve a nulla biasimare le nostre paure, giudicarle, sottostimarle, rimuoverle o negarle.
Capire che qualsiasi uscita da uno stato ed entrata in un altro, ha bisogno dei suoi tempi di maturazione e non può essere accelerato o forzato.
Capire che non basta essere esausti della posizione di deficit da cui si parte, ma bisogna anche diventare in grado di sostenere quella successiva, di autonomia, di successo, di ricchezza, che ci sottopone a nuove, difficili, e terrorizzanti condizioni.
Capire che dobbiamo imparare ad accogliere profondamente tutte le nostre paure e le nostre impotenze, così da poter avere il coraggio di confessarle prima di tutto a noi stessi, e poi al mondo.
Capire che qualsiasi percorso stiamo tentando di fare, avremo bisogno di tempo e di pazienza… e che solo l’andare piano ci permetterà di aver cura di tutti i presupposti e di tutte le conseguenze del cammino.
Tutto questo non ci toglierà dalla enorme difficoltà del crescere, e dal rischio di non farcela, ma almeno sottrarrà al dominio dell’inconscio la gestione di queste paure.
Invece di autosabotarci, potremo concederci di non farcela e cercare altre vie, più dolci, più gentili, più sostenibili, più percorribili.
Sono tante le situazioni in cui potremmo essere terrorizzati dal salire uno scalino che sembra proprio lì, a portata di mano.
Tante le volte in cui potremmo impantanarci proprio prima di compierlo, oppure scivolare rovinosamente giù dalla scala, proprio prima dell’ultimo piolo.
Potremmo essere ad un passo dalla laurea.
A un passo dal lavoro dei nostri sogni.
A un passo da quella firma che cambierà tutto.
A un passo da quell’accettazione interiore che ci trasformerà per sempre.
Non ci aiuterà negare le nostre paure di compiere quel passo, costringerci a farlo sotto le sferzate del nostro stesso biasimo e dei nostri “va fatto”, “te lo devi”, “te lo meriti”, “ti spetta”.
O sotto gli attacchi dei nostri “non puoi permettere che anche questa volta sia la tua indolenza, la tua pigrizia, la tua vigliaccheria a farti fallire!”.
Non ci aiuterà “prenderci a calci” e trattarci male da soli.
Non ci autosabotiamo perché non ci amiamo.
Ci autosabotiamo perché ci amiamo… Solo che la vita ci ha chiamato ad “essere umani”.
E a volte la condizione umana è qualcosa a cui non siamo pronti, è qualcosa di più grande di noi.
Proprio per questo, quando ci accorgiamo dei nostri autosabotaggi, agiti da noi stessi oppure dalle persone che amiamo, quando ci rendiamo conto delle nostre lamentele e dei nostri vittimismi, non è il momento di arrabbiarci e giudicarci.
È invece il momento di sostenerci, di farci coraggio e di amarci di più.
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Se avete letto fin qui, grazie se mi scrivete un “letto tutto”.
See vi va di commentare mi fate un grande dono.
Grazie di non copiare e incollare.
Se avete domande sarò felice di risondervi.
Grazie quando vi va di condividere.
Bruno

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